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La Termoluminescenza



Fig. 1 - Vasi durante una cottura in fossa, a cielo aperto.

La termoluminescenza è una delle tecniche diagnostiche maggiormente impiegate per la datazione e l’autenticazione dei Beni Culturali. Tuttavia, non tutti i reperti possono essere caratterizzati con questa tecnica: difatti, la termoluminescenza permette principalmente la datazione di materiali di origine inorganica, isolanti o semiconduttori, che abbiano subìto un riscaldamento prolungato ad elevate temperature, a partire dai 500-600 °C. Sarà quindi possibile studiare e datare reperti quali ceramiche, laterizi, terre di fusione, porcellane, terrecotte ed altri ancora, tenendo però conto che la datazione restituita dall’analisi corrisponde all’ultimo irraggiamento termico che ha riguardato il Bene.

Per esempio, se durante uno scavo archeologico sono ritrovati dei
reperti ceramici all’interno di un antico edificio, distrutto in passato a causa di un incendio, l’analisi diagnostica eseguita su quegli oggetti può aiutarci a datare l’incendio, ma non può rivelarci il momento in cui vennero realizzati i manufatti, poiché in questo caso hanno subìto una ricottura involontaria. Invece, in casi più fortunati, la datazione corrisponde alla cottura del manufatto durante la sua fase di produzione e quindi l’informazione data dall’analisi riguarda in primo luogo il bene analizzato.

Fig. 2 - Schema esemplificativo delle diverse strutture elettroniche che caratterizzano
i metalli, gli isolanti e i semiconduttori.

Affrontando la questione dal punto di vista scientifico, la termoluminescenza rappresenta un fenomeno luminoso che si verifica quando un oggetto con costituenti di origine inorganica (il reperto, nel nostro caso), sottoposto a riscaldamento, emette dei fotoni. La luminescenza prodotta si può spiegare analizzandone brevemente il fenomeno fisico. Gli elettroni di un atomo o di una molecola si trovano in livelli energetici quantizzati e, in condizioni di stabilità, sono localizzati nello stato caratterizzato da una minore energia che, nel caso dei materiali isolanti e semiconduttori, prende il nome di banda di valenza (Fig. 2). Quando gli elettroni vengono eccitati da una radiazione, essi effettuano una transizione energetica che gli permette di raggiungere un livello maggiormente energetico, la banda di conduzione. Tuttavia, la stabilità degli elettroni in questa banda è assai precaria, per cui essi decadono nuovamente verso un livello energetico minore emettendo un fotone. Alcuni di questi elettroni, però, non riescono a tornare nella banda di valenza e restano “intrappolati” in particolari livelli energetici che prendono il nome di “trappole”, situate nella cosiddetta banda proibita.

Per far sì che il fenomeno della luminescenza avvenga, l’oggetto in questione deve essere stato esposto ad un irraggiamento radioattivo, che avviene direttamente in natura: difatti, i materiali di origine inorganica sono caratterizzati da alcuni minerali, ad esempio il quarzo, che hanno la capacità di immagazzinare gli elettroni. Questi, dopo aver subìto l’interazione con le radiazioni ionizzanti di origine ambientale, restano stabilmente intrappolati. Quindi, nel momento in cui questo tipo di materiale subisce delle temperature superiori ai 500 °C, il dosaggio radioattivo che lo caratterizzava si azzera, in quanto tutti gli elettroni intrappolati nella banda proibita tornano ad essere eccitati da una fonte energetica e, nel decadere nella banda di valenza, emettono una radiazione luminosa. Da quell’istante in poi, in proporzione alla concentrazione di radioattività ambientale e fino ad un eventuale nuovo fenomeno termico, il materiale ricomincia a “ricaricarsi” radioattivamente.

Come è possibile immaginare, di grande importanza non è solamente il manufatto, ma anche il terreno che lo ospita; difatti, per affinare la datazione, sarebbe necessario effettuare l’analisi anche sul pane di terra, al fine di documentare la radioattività ambientale che ha inciso sul reperto stesso.

Per condurre la misurazione, viene prelevata dal reperto una esigua quantità di campione che, dopo essere stato polverizzato, viene posto in un forno e scaldato con un andamento lineare fino a raggiungere i 600 °C: così facendo si ottiene una curva di emissione, caratteristica del reperto analizzato. Successivamente, il campione, che ormai ha perso completamente la sua luminescenza, viene esposto ad una dose di radiazione nota e viene nuovamente eseguita la misurazione di termoluminescenza: quindi, per poter datare il reperto, viene effettuato un confronto fra le due curve di emissione prodotte.

In conclusione, si tratta di una tecnica distruttiva, anche se la quantità di materiale prelevato è esigua (rispettivamente, circa 10-15 grammi di reperto e di pane di terra); se il prelievo è stato effettuato con accortezza, evitando contaminazioni e su reperti che sicuramente non hanno subìto fonti di calore, le informazioni che questa tecnica restituisce sono assai importanti, dato che ci garantiscono una datazione nell’intervallo di tempo che intercorre fra i 200.000 e i 300 anni circa, con un margine di errore del 5-10%.

Eravate già a conoscenza di questa interessante tecnica diagnostica? Se l’argomento vi ha incuriosito, vi riporto alcuni testi per poter approfondire la vostra ricerca.


- U. Leute, Archeometria - Un'introduzione ai metodi fisici in archeologia e storia dell'arte, La Nuova Italia Scientifica, Roma 1993: https://www.libreriauniversitaria.it/archeometria-introduzione-metodi-fisici-archeologia/libro/9788843008087
- M. J. Aitken, Thermoluminescence dating, Oxford, Academic Press, 1985: https://www.amazon.co.uk/Aitken-Thermoluminescence-Dating-M-J/dp/0120463814
- C. Furetta, P. R. Gonzalez Martinez, Termoluminescenza e datazione, Roma, Bagatto Libri Editore, 2007.


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